ncipit, chi ben comincia è a meta del libro! _6 aprile_ Rubrica di consigli di lettura Il colibrì che salvò l’Amazzonia ispirato a una leggenda dei nativi americani – In uscita il 21 maggio
“Conoscete l’Amazzonia?E’ un’ immensa foresta, grande come un intero paese e verde come il paradiso terrestre. In questa foresta gigante ci sono piante e animali di tutti i tipi: piccoli, grandi, striscianti, rampicanti, volanti, belli, brutti, un po’ tonti e molto intelligenti, grigi, variopinti e tanti altri ancora”.
Proprio pochi giorni fa in piena emergenza Covid 19 ho sentito in tv Simone Cristicchi raccontare la leggenda del leone e del colibrì: è una storia a lui cara, che aveva in precedenza già raccontato, ma che in questo momento così difficile per il nostro paese, da valore all’ impegno di tutti nel rispetto delle regole della quarantena e da forza a questa battaglia nella quale “ognuno deve fare la sua parte per spegnere l’incendio”. Che sia una leggenda di origine africana o una leggenda dei Maya, il racconto, è dedicato a una delle creature più preziose e sacre secondo molti popoli antichi, il colibrì. In copertina del libro, scritto dall’ autrice francese Gwendoline Raisson e illustrato da Vincent Pianina, troneggiano su un grande albero quasi tutti i protagonisti del racconto: l’armadillo fifone, il pappagallo strillone, il serpente silente, il tenero tamarino e il lento bradipo, in un solo scatto il gruppo, mentre del minuscolo colibrì gli altri animali percepiscono a malapena il ronzio. Ma ecco che un giorno si alza una strana colonna di fumo nero. Per un momento tutti interrompono le loro occupazioni, ma poi c’è chi minimizza e grida al falso allarme, chi reagisce persino infastidito per il disturbo, chi semplicemente gira la testa dall’altro lato e torna a dormire. Il colibrì che ha volato più in alto, col tono preoccupato avvisa gli altri animali, sembrerebbe proprio un incendio, tutti sono in pericolo! Ma nessuno da ascolto al piccolo insignificante colibrì. Solo quando le fiamme divampano e l’incendio si propaga a tutta velocità, inarrestabile, tutti gli animali della foresta fuggono in cerca di scampo. Tutti trovano rifugio sulla cima di una collina e assistono alla catastrofe inermi e impauriti, fin quando non si accorgono dell’assenza del colibrì. E’ stato forse inghiottito dalle fiamme? No, eccolo il pappagallo l’ha visto! Ma cosa sta facendo? Il colibrì fa avanti e indietro tra il fiume e l’incendio, gettandoci sopra ogni volta qualche goccia raccolta nel suo becco. Tutti tornano a parlare, in coro lo deridono, lo accusano di essere un folle, gli dicono che è solo fatica sprecata. A questo punto, dopo averli ascoltati, il coraggioso colibrì si ferma per un attimo e replica: “Lo so, ma io faccio la mia parte”.
Non svelo certamente il finale, ma è lieto e soprattutto ben augurante per questi giorni faticosi che finiranno presto! E allora ci ritroveremo tutti quanti insieme a festeggiare, magari anche danzando, uniti nella gioia immensa di sapere che ognuno avrà fatto la sua parte!
Piccola nota sulle illustrazioni di Vincent Pianina, classe 1985: così accese nei toni, a tratti fluorescenti, fanno immergere il lettore nel clima tropicale, umido e caldo. Mi hanno ricordato Kamillo kromo del nostro mitico Altan! Grazie a Babalibri per l’invio de “Il colibrì che salvò l’Amazzonia”, una delle quattro novità della collana Superbaba, prime letture in stampatello maiuscolo e minuscolo, che avrebbero presentato alla Fiera di Bologna!
Età di lettura: a partire dai 5 anni, per lettori di ogni età 🙂
(Testo di Gwendoline Raisson, illustrazioni di Vincent Pianina, Traduzione di Simona Mambrini, collana Superbaba della casa editrice @Babalibri).
Incipit, chi ben comincia è a metà del libro! RUBRICA di consigli di lettura del lunedì 30 MARZO “Conosci i bambini della Tribù che puzza? Vivono nel bosco, dall’altra parte della montagna dei Pini Giganti. Sai, vicino ai resti dell’aereoplano che si è schiantato nel 1938.” Chissà se Elise Gravel, che lo ha scritto, e Magali Le Huche, che lo ha illustrato, abbiano deciso di prendere Il Signore delle Mosche di William Golding, masticarlo, scherzarlo, ribaltarlo e poi scordarlo per produrre questo strano ibrido fra albo illustrato e graphic novel che è La Tribù che puzza. Protagonista della storia è un gruppo di bambini orfani, che vivono in un bosco fitto nascosto da una montagna e poco distante da un paesino, capace di autogovernarsi, curarsi, nutrirsi ed educarsi in piena autonomia e con grande ingegno, in armonia con la natura, senza mai perdere la gioia ed, ovviamente, senza mai farsi il bagno. L’antagonista è l’inflessibile direttrice dell’orfanotrofio del paese Yvonne Carré, il cui sogno è di catturare i bimbi della Tribù, per sistemarli nel suo splendido ma deserto istituto. Ossessionata dal desiderio di impartire ai piccoli selvaggi le buone maniere, progetta e costruisce una diabolica macchina: la lavatrice di Yvonne Carré. Non è difficile immaginare che dopo continui tentativi di irretire gli orfani, il richiamo degli zuccheri li trarrà in inganno fin dentro la lava-bimbi, ma che, grazie alla diffidenza e all’astuzia della piccola Fannette Ducoup a capo della Tribù, riusciranno a liberarsi, tornare nel bosco, catturare Yvonne ed i suoi complici, metterli sotto corte marziale, ed, infine, decretare che no gli adulti non hanno sempre ragione e che sì i bambini se la possono cavare anche da soli. Il finale della storia ci regala un’inaspettata riconciliazione fra mondo dell’infanzia e mondo adulto, nel pieno rispetto dell’autodeterminazione. Il tono diretto ed interlocutorio della scrittura di Elise Gravel, autrice ed illustratrice canadese (qui vi rimando ad una scherzosa e piacevole intervista dove dichiara il suo debito nei confronti dei libri di Roald Dahl ed illustrati da Quentin Blake http://elisegravel.com/bio/), dialoga allegramente ed in piena armonia con le ironiche illustrazioni di Magali Le Huche, portento francese che ha al suo attivo più di trenta pubblicazioni. L’impaginazione alterna immagini a pagina doppia, singola, passante, sin quasi a costruire delle bande. Il risultato è un allegro caos che rende stimolante e movimentata la lettura, avvicinandosi fedelmente al soggetto. Una storia per i piccoli, su cui troppo spesso i genitori proiettano aspettative e frustrazioni, certamente utile a corroborare in loro l’autostima ed a confermare l’adeguatezza del loro caos. Ma anche un giocondo memento per gli adulti a ricontattare gli aspetti più belli dell’infanzia, quelli che ci avvicinano pericolosamente alla concordia e alla libertà. di Elise Gravel, illustrazioni Magali Le Huche, LA TRIBÙ CHE PUZZA, Edizioni Clichy, 2020, pp. 32.
Tautogramma? “Chi era costui?” Sin da bambina mi è sempre piaciuto giocare con le parole: acrostici, palindromi, ossimori … ma, confesso, i tautogrammi mi mancavano. Ecco la definizione che ne dà Walter Lazzarin, autore di “Animali all’avventura” un piccolo volume edito da Glifo Edizioni, giovane casa editrice palermitana: “il tautogramma, gioco letterario di origine medievale, è una composizione costituita con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti”. E ancora, voce nel vocabolario Treccani: “tautogramma s. m. [comp. di tauto- e -gramma] (pl. -i). – Frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera: è stato un esercizio letterario diffuso tra i poeti medievali, ed è ora un gioco enigmistico”. I protagonisti di questa raccolta, rigorosamente ordinata all’A alla Z, secondo nomi di luoghi, sono animali: babbuini, granchi, iene, squali, tutti impegnati in avventure un po’ strampalate, alla scoperta del mondo. E’ così che “nutrie notissime nomadi” incontrano nelle “nazioni nordiche” “Nikola narvalo norvegese”; “Pesci pagliacci” presso Papeete, “per passatempo producono pasticci”; mentre luccica la luna “Lena la lumaca lasciava lentamente la Lettonia”. Un gioco divertente, a tratti un po’ surreale, che potrebbe essere anche spunto per un’attività “poetica” da inventare con i bambini in questi giorni. Perché non realizzare un “bestiario” immaginario (altra attività ben conosciuta dagli autori medievali), da corredare di immagini? Che ne dite, lanciamo un concorso? Ponteponente presto proporrà piani per progettare prontamente porte e ponti prodigiosi! Ho trovato “stuzzicante” anche il blog personale di Lazzarin, che gira con una macchina da scrivere per promuovere i suoi libri e che vi invito a visitare, a caccia di nuovi tautogrammi: scrittoreperstrada.blogspot.com.
Walter Lazzarin – illustrazioni di Silvestro Nicolaci, Animali all’avventura. Tautogrammi dalla A alla Z per bambini e adulti, Glifo edizioni, Palermo, 2020
Incipit , chi ben comincia è a metà del libro! RUBRICA di consigli di lettura del lunedì 16 marzo 2020
“Cara mamma, potresti venire a prendermi appena leggi questo? TI PREGO! Sono triste”.
Lo confesso. Non ho mai partecipato ad un campo estivo, mentre tantissimi dei miei più cari amici sì, alcuni di loro sono persino capi scout, come lo sono anche due delle mie colleghe. Ciascuno di loro in questi anni ha condiviso con me racconti e aneddoti, esperienze e giochi per bambini e ragazzi, modalità di gestione di un gruppo. E ora che ho finito di leggere il fumetto della Brosgol, mi sembra di aver aggiunto a quelle storie una nuova voce. Sempre pronti nasce da un’esperienza personale dell’autrice, ossia le sue estati, qui radunate in una sola, al campo estivo russo. Chi è Vera Brosgol? Classe 1984, di origine russa, fumettista già conosciuta dal pubblico di giovani lettori con il suo primo successo, la graphic novel “Anya e il suo fantasma” (pubblicata sempre da BAO Publishing). Ha lavorato per molti anni a Laika – lo studio di animazione che ha prodotto tra i film Coraline, solo per citarne uno. Vera si trasferisce in America all’età di cinque anni, ancora bambina sì, ma abbastanza grande da provare sulla sua pelle la “doppia assenza” (cit. Abdelmalek Sayad), quel sentire di non appartenere né al paese di origine né al paese di accoglienza: “troppo povera, troppo russa, troppo diversa”. In Sempre pronti, quello che la piccola “Verusik” vuole di più è integrarsi, sentirsi uguale alle sue compagne benestanti che vivono in grandi e belle case, organizzano indimenticabili feste di compleanno e hanno costosi giocattoli. E così quando Vera ha la possibilità di partecipare ad un campo scout russo, grazie al contributo economico della sua chiesa ortodossa, non sta più nella pelle: non solo non sarà più l’unica bambina del quartiere a passare le vacanze in città, ma lo farà in mezzo ai suoi connazionali, libera dalla pesante sensazione di essere diversa. Lì al campo dove partecipa insieme al fratellino, che viene assegnato al gruppo dei più piccoli, tutti indossano la divisa, hanno toppe da cucire sul petto come medaglie, cucinano e imparano rudimenti di artigianato. Ma le difficoltà non tardano ad arrivare: i servizi igienici si trovano in una baracca senza porte e piena di ragni, ci sono un sacco di insetti, le sue compagne di tenda più grandi prima la snobbano, poi la deridono e umiliano davanti al gruppo. Vera non riesce a sentirsi accettata nemmeno qui, così inizia a scrivere delle lettere alla madre nelle quali le chiede ripetutamente di tornare a casa. Colpisce la bravura della Brosgol nel ritrarre Vera, con pochi tratti, in tutti i suoi cambiamenti di stato d’animo e di comportamento verso gli altri. All’inizio timida e intimorita, poi accondiscendente e pronta a tutto pur di conquistare l’amicizia delle sue compagne di tenda, di nuovo sola contro tutti e persino cinica quando con una battuta deride un compagno che si è fatto male. La Brosgol ci riporta a quelle estati preadolescenziali, alle amicizie “per sempre”, alle gelosie e cotte per lo stesso ragazzo, alle prime delusioni. Estati emotivamente forti e per questo indimenticabili! La vita nel campo è una prima prova di maturità come individui autonomi, pronti a sentirsi parte di una comunità più grande della propria famiglia. Che siano disposti ad ammetterlo a se stessi o meno, tutti questi giovani scout tornano a casa cambiati, inclusi Vera e il fratellino, che alla fine della loro esperienza, si ritrovano d’accordo sul fatto che ne sono usciti indenni, ma che fatica è stata! In appendice al libro ci sono alcune fotografie personali e una copia della lettera originale scritta da Vera a sua madre durante il campeggio, assieme a una nota in cui l’autrice spiega “se qualcosa è stato cambiato, i sentimenti narrati sono però veri al 100%. Molti amano i campi estivi e non vedono l’ora di andarci ogni anno. Sono felice per loro, ma non sono come loro. So di non essere la sola a pensarla così e questo libro potrebbe far sentire alcuni bambini meno soli”.
Età consigliata a partire dai 10 anni.
Sempre pronti di Vera Brosgol, colori di A. Longstreth, trad. di Michele Foschini, BAO Publishing editore 2019.
Incipit, chi ben comincia è a metà del libro! RUBRICA di consigli di lettura del lunedì 9 MARZO
“Eccomi. Soni qui che aspetto.” Poche parole e tre disegni che svelano all’osso l’infinita, noiosissima, scomoda durata del tempo che resiste all’impazienza. Quante volte abbiamo abitato – da bambini, da ragazzi – il vuoto che ci separava da un evento tanto atteso con l’inedia del corpo? E in quel niente ci siamo persi in riflessioni e rimuginii? Da qui parte IL REGALO, albo illustrato di piccolo formato appena pubblicato da Beisler Editore nella collana LibriPinguino. Emma Adbåge, giovane autrice ed illustratrice svedese, ha al suo attivo una quasi ventennale esperienza. Capace, con essenzialità ed incisività, di raccontare le dinamiche psicologiche proprie dell’infanzia – fra egoismo ed incanto – senza edulcorare né approssimare. Lo fa qui, come nel suo altro bellissimo libro LA BUCA, pubblicato di recente in Italia per Camelozampa. Un bimbo con gli occhiali, di cui non si sa il nome, è invitato alla festa di compleanno del piccolo Frej e racconta, in prima persona, attraverso una catena di pensieri ed osservazioni, una sorta di flusso di coscienza, come trascorre il tempo: dall’attesa che sua madre si finisca di preparare per accompagnarlo, all’arrivo in casa di Frej, al culmine dei festeggiamenti, sino al ritorno verso casa. Il problema è il regalo, perché, in un bel pacchetto bianco dal nastro rosso, c’è un castello giocattolo rosso che il bimbo ha scelto per il suo amico, uguale in tutto, tranne che per il colore, al castello verde che ha lui stesso (e che vediamo anche noi sul pavimento della sua stanza, prima svettante, poi tirato giù come un birillo); nella mente del bambino si attiva un cortocircuito ed improvvisamente è lui a desiderare ardentemente il castello rosso. Vorrebbe fare a cambio e tenerselo tutto per sé. E’ invidioso del regalo che attende di essere donato. E’ invidioso della gioia che attende il festeggiato, tanto da rovinarsi l’umore. A nulla vale ritrovare gli amichetti festanti, il dolce banchetto, il tantiauguriate. Il disappunto del bambino culmina – estremo tentativo di attirare l’attenzione – col rovesciarsi addosso, sui pantaloni buoni, lo sciroppo di lampone. Una macchia rossa, rossa come il castello per Frej. La mamma in questo racconto, presentata come una donna buffa ed intelligente, non giudica, non si arrabbia, contiene le proteste del figlio ponendosi come baluardo della logica. Gli altri personaggi e gli ambienti sono raccontati e disegnati come funzioni di risonanza al mondo interno del bambino. Sprazzi di colori, a volte tenui, a volte sgargianti, riempiono i vuoti di linee nervose che delineano forme impercettibilmente deformi e che lasciano bianchi gli elementi più corposi; come a dire che le emozioni in un bambino sono dolci e amare, potenti, ancora da armonizzare. L’irragionevolezza dei bambini è un elefante rosa. A noi adulti può sembrare irreale, ingombrante, e ci imbarazza, a tratti, per la sua goffa ed inadatta presenza. Eppure esiste. L’elefante c’è, ed è rosa. Un cortocircuito della mente che parla attraverso il cuore. Una sospensione dell’esperienza del mondo e della relazione in luogo di un deflagrare di sentimento che rischia di fare male. E poi l’elefante se ne va, così com’è arrivato. Un miraggio che passa, magari più di rado, anche per la vita dei grandi. Frej, il festeggiato, apre il pacchetto bianco dal nastro rosso, trova il castello rosso, si arrabbia: lui voleva il castello verde. Il castello verde del bimbo occhialuto. All’s well that ends well.
di Emma Adbåge, IL REGALO Beisler Editore, 2020, pp. 26. Età di lettura: dai 3 anni.
INCIPIT, chi ben comincia è alla metà del libro rubrica dei consigli del lunedì 2 MARZO
Luigi Dal Cin – illustrazioni di Cecilia Cavallini, Esopo rap. Versi animali, Einaudi ragazzi (edizioni EL) Trieste, 2020, pp. 87 Elli Woollard – traduzione di Lucia Feoli – illustrazioni di Marta Altés, Favole di Esopo, Einaudi ragazzi (edizioni EL) Trieste, 2020, pp. 91
Ὁ μύθος δελοι οτι Il racconto dimostra che … La storia insegna che … Ricordo ancora nitidamente questa frase, posta quasi come un’epigrafe scolpita al termine delle prime, assai temute, versioni di greco al ginnasio. Tratte dalle favole di Esopo, impartivano a noi ragazzi un supplizio in più, oltre alla fatica della traduzione, cioè il doversi sorbire la “morale” della storia, per di più interpretata da animali (stupidi, a nostro parere di allora) con comportamenti ridicolmente umani. Credo sia difficile anche oggi proporre la favola a bambini e ragazzi, ben più realistica e diretta della fiaba nel suo intento didascalico, senza correre il rischio di cadere nel moralismo forzato. Ben ci riesce, utilizzando la rima come “chiave” (sulla scia della tradizione di La Fontaine), la casa editrice Einaudi ragazzi (per i tipi delle Edizioni EL), che ha riproposto a poca distanza l’una dall’altra due versioni delle “Favole di Esopo”, entrambe, appunto, in rima. La prima, opera di Luigi Dal Cin, addirittura definita “rap”, uscita i primi del mese scorso; la seconda, di Elli Woollard e che leggiamo in italiano nella traduzione di Lucia Feoli, in libreria dal 25 febbraio. In un’intervista a Dal Cin che ho ascoltato su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=g8YTbtShI-w), realizzata dall’emittente Telestense Ferrara, l’autore usa questi termini per definire il suo approccio alle favole: è stato come “togliere la polvere dai vestiti muovendosi a ritmo”, un ritmo tipico di rap, giocando con le metafore. Un’interpretazione ironica e a volte con finale a sorpresa, quasi un gioco di lingua e suono, adatto anche ai più piccoli. Ecco la chiosa della versione de “La cicala e la formica”: “Non so dirvi se la storia qui finisca, ma un invito poi mi piace immaginare: prima il pranzo con formiche generose, la cicala, sopra il palco, poi a ballare”. Una bella “mediazione” direi tra il finale classico e la nota filastrocca di Rodari, che mi è subito tornata in mente: “Chiedo scusa alla favola antica se non mi piace l’avara formica io sto dalla parte della cicala che il più bel canto non vende… regala!” Agili e fantasiose anche le rime dell’inglese Elli Wollard (autrice di un’altra novità da poco arrivata in libreria “E’ primavera orsetto!”, Emme edizioni), accompagnate dalle illustrazioni di Marta Altés, dai colori vividi e dal tratto pastoso. Alcune favole sono precedute da un piccolo riassunto, che pone ai bambini una domanda. Questa all’inizio della favola “Il babbuino e la volpe” (non tra le più conosciute in verità) mi è sembrata particolarmente adatto ai tempi attuali: “Un re, un capo, va scelto con cura: dev’essere autorevole e avere misura. Ma se fossi un animale, chi sceglieresti come sovrano? Un tipo saggio ma noioso, o un buffo ciarlatano?” Domanda che forse andrebbe posta più agli adulti che ai bambini, ma si sa, le storie per bambini continuano da sempre a parlare anche ai grandi.
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